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Brand journalism: l’anti “spottone” che comunica la marca creando valore

brand journalism
  • Sapevi che il brand journalism ha la stessa età di cinema e pallavolo? Sono tutti nati a fine ’800.
  • Il giornalismo di marca mette etica e tecniche giornalistiche al servizio della narrazione di marca, rappresentando una valida opportunità per i brand.
  • Compito del brand journalism è selezionare le storie trasformandole in contenuti significativi, utilizzando le tecniche giornalistiche.
  • Il brand journalism non fa pubblicità. Propone, piuttosto, contenuti di valore per creare un rapporto con il pubblico basato sulla fiducia, sulla credibilità e sulla trasparenza.
  • Brand journalism, content marketing e native advertising: non manca qualche punto di contatto, ma sono concetti molto diversi. 
  • La narrazione di marca è una precisa scelta di campo, che può portare innumerevoli benefici a un’azienda: ecco i principali.

Una lunga storia

Ha la stessa età del cinema e della pallavolo. È nato, infatti, nel 1895. In quello stesso anno, i fratelli Michelin testavano i primi pneumatici e Marconi effettuava la prima trasmissione via radio. Eppure, nonostante se ne scriva e se ne parli molto, il brand journalism per molti resta a tutt’oggi un mezzo mistero.
C’è chi ancora non lo conosce, chi lo confonde con altro e chi vi rifugge, bollandolo (sbagliando) come una comunicazione commerciale. Non è così: il brand journalism mette etica e tecniche giornalistiche al servizio della narrazione di marca, rappresentando una valida opportunità. Crea, insomma, valore e, nell’ambito di un approccio multicanale e di efficaci strategie di comunicazione, fa la differenza. Questo perché cambia il modo di comunicare, anzi di pensare la gestione delle informazioni, scansando l’autoreferenzialità per puntare in alto.

Una materia da trattare (e da trattore)

Non ci concentriamo qui sulla storia e sulle origini del brand journalism. Ci limitiamo a segnalare che di brand journalism, in questi termini, si parla dal 2004.
La storia, tuttavia, è ben più antica. Le origini vengono fatte risalire, appunto, a fine ’800, quando John Deere, la celebre azienda di macchine agricole, lancia The Furrow (Il solco). Si tratta di un magazine di consigli e suggerimenti per i contadini. Un secolo dopo, è una rivista di agricoltura stampata in 14 lingue e letta da 2 milioni di persone al mondo.
Il motivo del successo? Non prova a vendere qualcosa elogiando le qualità dei prodotti John Deere. Piuttosto racconta storie, anche nei risvolti più tecnici, e fornisce contenuti di valore che interessano i lettori e offrono spunti utili per la loro attività. Qui sta la vera chiave di volta del brand journalism. Che si tratti di colossi come McDonald’s o Coca Cola o di una Pmi, la formula non cambia: EC = MC. Ovvero: every company is a media company. Ogni azienda è (potenzialmente) un media. 

LEGGI ANCHE: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, anche tra brand journalism e web 

Che cos’è il brand journalism

Come noto, un giornalista non può prestarsi a logiche di tipo commerciale. È questione di etica e di deontologia professionale¹. Nulla, però, vieta a un’azienda di affidarsi a un giornalista per raccontarsi su piattaforme editoriali di vario tipo, che si muovono come testate a tutti gli effetti. 

Questo fa il brand journalism. Il suo compito è selezionare le storie trasformandole in contenuti rilevanti. Come? Applicando le tecniche giornalistiche. In primis la capacità di: 

  • scovare notizie, spesso scavando sotto la superficie;
  • fare (e farsi) le domande giuste;
  • rendere le storie interessanti per chi le deve fruire. 

Tutto ciò viene perseguito tramite un flusso costante di contenuti di qualità, ideale in una brand communication omnichannel. Una logica che può essere declinata su vari canali: sul web, legandosi in modo virtuoso alla SEO, ma anche sulla carta stampata, con un video, sui social o tramite un podcast

Peculiarità e obiettivi del giornalismo di marca

Il brand journalism crea contenuti per i media proprietari dell’azienda. E lo fa in modo esplicito per il pubblico: non indossa maschere e non presta il fianco a possibili fraintendimenti.
Il suo obiettivo è offrire questi contenuti a un pubblico interessato, con cui creare un rapporto basato sulla fiducia, sulla credibilità e sulla trasparenza. Nel lungo periodo, come dimostrano vari casi di studio, tutto ciò si tramuta in una leva commerciale più efficace di qualsiasi call to action. L’obiettivo primario del brand journalism, però, non è questo.
Da notare, poi, che anche la comunicazione aziendale è vincolata alla verità e correttezza delle informazioni. Queste, prima di essere veicolate, devono essere verificate. Chiaramente, è una verità “di parte”. Tuttavia, il lettore lo sa e ha sempre ben chiaro che chi sta parlando o scrivendo è l’azienda. 

LEGGI ANCHE: Cinque motivi per credere nel futuro del giornalismo

Le differenze con il content marketing…

Spesso il brand journalism viene confuso o sovrapposto al content marketing e al native advertising. In realtà, come spiegano i colleghi di Svënn, si tratta di concetti molto diversi tra loro. Possono coesistere in un medesimo ambito aziendale, ma non vanno confusi.

In particolare, brand journalism e content marketing condividono obiettivi comuni. Nel dettaglio:

  • creare contenuti pertinenti e di valore; 
  • aumentare la consapevolezza del brand;
  • costruire un rapporto con il pubblico basato sulla fiducia.

Tuttavia, sono diverse le modalità con cui perseguono questi obiettivi ambiziosi. Il content marketing crea e condivide contenuti per creare engagement e orientare il processo d’acquisto degli utenti. Il brand journalism, invece, vuole informare, intrattenere e creare fiducia. Racconta i valori di un brand e quel che accade nel suo mondo, dando significato e valore a dati e avvenimenti rilevanti. 

… e con il native advertising

Anche il native advertising è altro dal brand journalism. E già il nome sottolinea le differenze. Il native advertising è una strategia evoluta di promozione dei contenuti pubblicitari che si adatta allo stile, al formato e al tono di voce della testata ospitante. Questo per superare una certa idiosincrasia, sempre più accentuata, degli utenti nei confronti dei messaggi pubblicitari, a causa della loro pervasività. Anche i contenuti di native advertising sono di valore e pensati per intrattenere, informare, catturare l’attenzione e stimolare la curiosità del lettore/spettatore/ascoltatore. Il native advertising lo fa, però, su piattaforme esterne all’azienda, a differenza del brand journalism che agisce su media proprietari. 

I vantaggi del brand journalism

Il brand journalism è, dunque, una precisa scelta di campo, con regole codificate. È altro dal giornalismo puro, è qualcosa di diverso dal marketing. Avendo ben chiaro questo, la narrazione di marca può sprigionare appieno le sue potenzialità, creando valore aggiunto per l’azienda, specie se si muove nell’ambito di una strategia omnicanale. I vantaggi del brand journalism sono innumerevoli. Può contribuire a:

  • aumentare la brand awareness;
  • incrementare l’autorevolezza dell’azienda, rendendola una fonte d’informazione credibile;
  • posizionare il marchio tra gli opinion leader del settore di competenza.

Il brand journalism può, inoltre, fornire uno strumento efficace per proteggere da possibili attacchi reputazionali. Insomma, tutto tranne che uno “spottone” fine a se stesso. 

NOTE

¹ Per approfondire: Testo Unico dei doveri del giornalista

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